Come scrivere una relazione di laboratorio efficace (ma anche no)
Uno spettro s’aggira nei nostri laboratori: lo spettro del relazionismo. Se chiediamo ad uno studente di scrivere una relazione di laboratorio, il più delle volte otterremo un prodotto abbastanza stereotipato e prevedibile, nella struttura e forse più ancora nello stile letterario. Dev’esserci da qualche parte la Grande Madre, o l’Idea Platonica della relazione di laboratorio, che fa sentire il suo influsso malefico ad ogni livello scolastico; io stesso, se vado a rivedere i miei vecchi quaderni di studente, vedo che a lungo ne sono stato vittima. Solo ripensandoci nel corso degli anni ho capito quanto sia deleterio questo tipo di esercizi, anche dal lato educativo, se lo scopo è farti capire cosa hai fatto e che riflessini puoi trarne.
La relazione deve diventare uno strumento di comunicazione interpersonale immediato, diretto, non artificioso. E, soprattutto, cercare di confrontarsi con gli stili di comunicazione che esistono al di fuori della scuola: in particolare, fuori della scuola italiana.
Quand’ero in Montedison, giovane ricercatore convinto di saper scrivere bene, ricordo le “ripassate” che ci dava un anziano consulente – per nulla politically correct – incaricato di rileggere e correggere le nostre relazioni e i nostri progetti di ricerca, da cui eliminava a colpi d’accetta tutti i discorsi indefiniti, tutto ciò da cui non si capiva quale fosse il reale stato di avanzamento di un lavoro o le ragionevoli prospettive di sviluppo. Diciamo, almeno metà degli avverbi.
Lo stile che ne veniva fuori, e soprattutto l’aderenza alla realtà, era quella che si deve ritrovare in una pubblicazione scientifica o in un brevetto, quella che poi ho visto insegnare da molti libri di testo concepiti per il mercato anglosassone, così diversi da quelli nostrani. Ma su questi aspetti torneremo nella seconda parte.
Fonte: Didattica Chimica
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